Ricostruire la fiducia verso la scienza per il beneficio della collettività

Intervista a Marco Simoni, Presidente Fondazione Human Technopole

Ritiene che oggi la scienza e gli istituti di ricerca debbano avere, rispetto al passato, una responsabilità maggiore nell’ ingaggiare un dialogo con chi di scienza non si occupa, al fine di costruire un rapporto di fiducia con la società?  

Assolutamente sì. Viviamo nell’epoca della disintermediazione, in cui i classici corpi intermedi che una volta svolgevano un’importante funzione di mediazione hanno perso quel ruolo di cerniera tra mondi differenti che li caratterizzava solo qualche decennio fa: senza quelle cinghie di trasmissione dell’informazione, dove ci si mischiava e ci si contaminava reciprocamente portando il proprio vissuto e le proprie esperienze – penso ai sindacati, alle parrocchie o alle sezioni di partito – oggi ci troviamo in un mondo pieno di informazione, ma più povero di conoscenza e soprattutto di fiducia.
Per questa ragione la scienza ha oggi l’obbligo di farsi direttamente carico di un dialogo orizzontale con i cittadini. Anche perché, come la pandemia ha messo drammaticamente in evidenza, una opportuna informazione scientifica è cruciale per spingere i cittadini a compiere scelte corrette. Ogni giorno, infatti, ci troviamo a dover prendere decisioni che riguardano non solo la nostra salute, ma anche il benessere generale della collettività – dal vaccinare i nostri figli al rispettare le indicazioni per contenere la diffusione del Covid19 – ma prendere questo tipo di decisioni non è sempre semplice, nonostante l’immensa mole di informazioni cui tutti abbiamo accesso. Per i non addetti ai lavori non è infatti immediato districarsi fra dati dimostrati e dati falsati, oppure identificare fonti attendibili e mantenere uno sguardo critico nei confronti di ciò che si legge.
In più, nel tempo, una fetta non trascurabile della popolazione ha sviluppato un atteggiamento di sospetto nei confronti della scienza e degli esperti più in generale. Questo anche a causa di quell’effetto “torre d’avorio” che ha purtroppo caratterizzato larga parte della comunità scientifica in passato e che ha generato quello scetticismo da cui nascono poi inevitabili manifestazioni irrazionali di rigetto, come ad esempio i fenomeni dei no-vax o dei no-mask.
Mi capita di ripeterlo spesso, ma, alla luce di tutto questo, il compito di un ricercatore di oggi non può limitarsi a essere quello di far bene il proprio lavoro: è invece necessario uno sforzo maggiore per alimentare un dialogo costante con i non addetti ai lavori e contribuire a ricostruire la fiducia verso la scienza e verso l’impatto positivo che questa ha sulla vita di tutti.

 
Le scoperte scientifiche migliorano la qualità della vita delle persone. Come ci confermano, peraltro, le “life science”, oggi sempre più alla ricerca di un approccio multidisciplinare che superi la medicina tradizionale, con la collaborazione fra medici, matematici, bioinformatici, per aumentare la conoscenza dei legami tra DNA, stili di vita, ambiente e malattie. Quale ritiene sia la strada da seguire perché questo possa avvenire e trovare la sua piena realizzazione? 

Non solo la scienza migliora la qualità della nostra vita, ma serve a far crescere la nostra società e la nostra economia. Se fino agli anni ’60 la crescita economica dipendeva dalla capacità produttiva delle grandi fabbriche, oggi, per effetto della globalizzazione, dipende invece dalla capacità di sviluppare nuova conoscenza, di realizzare nuovi prodotti e nuove tecnologie e trasferire questi ultimi all’interno della società.
E per produrre conoscenza è necessario investire in conoscenza.
Il settore delle Scienze della Vita è un caso emblematico: secondo le stime dell’OCSE, nel 2030 inciderà per il 2,7% del PIL globale: saranno biotech l’80% dei prodotti farmaceutici, il 50% di quelli agricoli e il 35% di quelli chimici e industriali. Potenziale immenso dunque, ma trattandosi di un settore a alta intensità di ricerca, senza adeguati investimenti non saremo in grado di stare al passo con l’evoluzione del mercato.
L’Italia oggi investe solo lo 0,32% del Pil in ricerca di base e siamo al diciannovesimo posto nella classifica OCSE, guidata dalla Svizzera con l’1,29% e dalla Corea con lo 0,66. È fondamentale, anche approfittando dell’opportunità oggi offertaci dal PNRR, che l’Italia recuperi il divario con i principali paesi europei e arrivi a investire almeno ai loro livelli, finanziando un maggior numero di progetti, ampliando il numero di ricercatori e realizzando nuove infrastrutture all’avanguardia a servizio della comunità di ricerca.
Nonostante una capacità di collaborazione internazionale diffusa, il nostro Paese ha ancora pochissimi centri di ricerca segnatamente internazionali, capaci di attrarre scienziati anche non italiani. Questi centri internazionali, negli altri paesi europei, fungono anche da piattaforme scientifiche, ospitano tecnologie di larga scala, sono in grado di attrarre finanziamenti europei, sono luoghi di collaborazione e network, con un effetto positivo sulla produzione scientifica di tutto il sistema, oltre che sulla reputazione del Paese. Sono profondamente convinto che un investimento mirato su questo tipo di strutture potrebbe garantire all’Italia una migliore capacità non solo di fare ricerca, ma di trasformarla in prodotti, servizi e innovazioni a beneficio dell’intera collettività.