L’archeologo, interprete della complessità contemporanea
Intervista a Salvo Barrano, Presidente Associazione Nazionale Archeologi, componente del Comitato Tecnico-Scientifico del Parco Archeologico di Paestum
Quella dell’archeologo, fra le professioni nell’ambito dei beni culturali, è senz’altro fra le più note; complice una visione che, nell’immaginario collettivo, è spesso condizionata dalle figure proposte dalla letteratura o dalla cinematografia che hanno amplificato gli aspetti romanzeschi della professione a discapito di quelli più legati alle attività di studio, ricerca bibliografica, documentaria e archivistica.
É indubbio che il successo della saga di Lucas ha imposto nell’immaginario collettivo mondiale la figura dell’archeologo come avventuriero spregiudicato alla ricerca di tesori nascosti. Un’immagine che può far storcere il naso ma che si avvicina molto più di quanto si creda a figure effettivamente attive nel ‘700 o nell’800, come Schliemann, Elgin, Evans o Maria Reiche nel ‘900. Al di là di certe distorsioni indotte dal cinema e dalla letteratura, il fascino dell’archeologo è oggi dovuto alla possibilità per i cittadini di assistere direttamente a molti scavi archeologici già nelle fasi di cantiere e di entrare nel vivo delle ricerche, come avviene ad esempio negli ormai famosi progetti di archeologia sperimentale curati dall’archeologo Alessandro Fichera per la Parchi Val di Cornia. Ma credo che il fascino dell’archeologo oggi sia anche merito della divulgazione televisiva, che ha sviluppato tecniche di narrazione sempre più sofisticate e coinvolgenti, esaltate da fuoriclasse, come Alberto Angela, o Mario Tozzi. Tutto questo semplifica la comprensione per un cittadino comune, che può così accedere a informazioni complesse in un racconto organizzato, contestualizzato e fluido, oltre che coinvolgente ed emozionante. Credo che oggi un buon documentario di Sky Arte o un’esperienza immersiva su un sito archeologico possano essere molto più interessanti e persino più istruttivi di una classica lezione universitaria, tanto più se stanca e svogliata. Se dovessi spiegare la stratigrafia archeologica ad un allievo, più che suggerirgli il manuale di Harris o di Carandini, lo accompagnerei a visitare le domus di Palazzo Valentini a Roma o il tratto dell’Aqua Virgo scavato da Marta Baumgartner e splendidamente musealizzato dal Gruppo Rinascente. Ovviamente altra cosa è l’approfondimento mirato alla professione: un’attività molto impegnativa che presuppone anni di impegno, di studio e di esperienza, che quasi mai vengono ripagati con adeguate opportunità professionali.
Qual è, dunque, il profilo dell’archeologo del terzo millennio e quali sono i principali ambiti professionali in cui, oggi, si trova ad operare?
Al di là dei ruoli apicali e dei pochi che riescono ad operare in contesti privilegiati, se dovessi immaginare l’identikit di un archeologo del 2018, penserei ad un professionista in crisi esistenziale. Da un lato Università e Scuole di Specializzazione producono un eccesso di offerta formativa, continuando ad attivare percorsi iperspecialistici. Dall’altro il mercato delle professioni tecniche rimane poco dinamico e non è affatto disposto a “pagare” queste competenze, privilegiando profili più “leggeri”. Una delle cause è il solco profondissimo che si è creato negli anni tra la formazione e la professione. Già nel 2007 Antonio Maccanico, fondatore e già Presidente dell’Associazione Civita, inquadrò con lucida visione ed onestà intellettuale tali distorsioni nella premessa del rapporto Civita Formazione e occupazione: così vicine così lontane (Giunti 2007): “[…] emergono con forza due questioni. La prima è quella della drammatica sfasatura tra formazione e mondo del lavoro dal punto di vista quantitativo, ovvero l’eccessivo numero di formati rispetto alle richieste del mercato del lavoro. Il secondo riguarda il rischio di un decadimento del livello di preparazione a fronte, invece, dell’esigenza di mantenere alta la qualità dei contenuti formativi […]. L’unico modo a mio avviso per ricucire questa “sfasatura” sarebbe quello di coinvolgere attivamente i professionisti nella progettazione dei corsi universitari. Molti professori universitari di archeologia oggi entrerebbero in crisi se fossero incaricati di svolgere in prima persona una valutazione di interesse archeologico per un’opera pubblica o un progetto definitivo di scavo. Probabilmente chiederebbero consigli ad un bravo allievo che fa il professionista…
Un altro problema è l’assenza di una regolamentazione chiara: si pensi all’enorme ritardo con cui si sta arrivando al riconoscimento delle figure tecniche, a 43 anni dall’istituzione del Ministero dei Beni Culturali e a quasi vent’anni dal Testo Unico dei Beni Culturali. Questa confusione si avverte in tutti gli ambiti: nel ministero, negli enti locali, nelle università e negli enti di ricerca. L’unica eccezione forse è costituita dai nuovi musei autonomi, che hanno ricevuto nuova linfa dalla riforma Franceschini. Se ci guardiamo intorno l’attenzione del pubblico e il “consumo” di archeologia si sono moltiplicati in maniera esponenziale negli ultimi anni ma questo non ha avuto conseguenti ricadute positive sul mercato del lavoro. Per questo rimprovero all’ex Ministro Franceschini di essersi lasciato esaltare troppo dai “fatturati” dei musei ma di aver rivolto scarsa attenzione alla buona occupazione e al lavoro. Non si tratta di un’istanza sindacale ma di una visione culturale. Se raddoppiano i visitatori e gli introiti nei musei ma poi non aumentano le opportunità di crescita professionale per i tecnici e per i giovani vuol dire che c’è un’impostazione sbagliata a monte. Una delle cause andrebbe ricercata nell’uso distorto del volontariato ma anche nella incapacità di valorizzare le competenze già presenti sul mercato. Per questo ritengo incomprensibile la scelta di Franceschini di istituire la Scuola del Patrimonio, un ulteriore corso biennale per allievi già in possesso di dottorato e specializzazione…
Nel nostro Paese l’archeologo esercita la professione in un contesto particolarmente ricco di testimonianze e ricopre un ruolo rilevante per il riconoscimento, la conoscenza e la valorizzazione dei beni archeologici. In che modo l’impiego delle nuove tecnologie può essere utile nel vostro operato? Quali sono, in tal senso, le esperienze più significative realizzate in Italia?
Per quanto riguarda le attività di valorizzazione, il contributo delle tecnologie è sotto gli occhi di tutti ma riguarda in massima parte il visitatore o chi si occupa della comunicazione: basti pensare agli esempi già citati o alle splendide esperienze immersive dei “Viaggi nei Fori” o della Domus Aurea, per rimanere a Roma. Ma l’uso di tecnologie avanzate sta avendo un effetto dirompente anche sull’archeologia professionale: si pensi alle tecniche di rilievo fotogrammetrico aereo o terrestre che consentono di rilevare con precisione submillimetrica i resti archeologici. Si tratta di una tecnica particolarmente importante nell’archeologia urbana perché consente di acquisire in pochissimo tempo grandi data set, ottenendo al contempo modelli tridimensionali, navigabili ed interrogabili anche dopo la chiusura degli scavi. Questa tecnica consente ad esempio di riaprire molto più rapidamente una strada bloccata a causa di un cantiere archeologico. Un altro strumento sempre più utilizzato in archeologia è il GIS (geographic information system), particolarmente adatto nella gestione delle informazioni stratigrafiche o nelle mappature territoriali, anche ai fini della tutela. Infine segnalerei il grande impatto delle scienze geospaziali sulla diagnostica non invasiva a scala territoriale, in particolare penso all’uso del telerilevamento e della lettura di immagini satellitari per la prevenzione del rischio archeologico nella progettazione delle opere pubbliche.
Un consiglio, infine, ai giovani che intendono intraprendere questa professione nel nostro Paese, riguardo, in particolare, a competenze e percorsi formativi.
Sa quali figure ha selezionato alla fine del 2017 Italferr, società del Gruppo FS, per dirigere scavi archeologici? Esclusivamente ingegneri e architetti. Se volessi essere provocatorio consiglierei di frequentare un corso di ingegneria o di architettura per la conservazione e il restauro del patrimonio culturale, ma sarebbe una sconfitta per la nostra professione e ne decreterei di fatto l’estinzione, altro che crisi esistenziale… In realtà la formazione storica, integrata con la stratigrafia archeologica, è soprattutto uno strumento metodologico per comprendere le complessità di una società attraverso le testimonianze materiali. In questo sono d’accordo con Cristian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino: nel passaggio dalla civiltà analogica a quella digitale il contributo di storici e archeologi potrebbe essere decisivo per comprendere i processi di trasformazione. L’archeologo può esercitare un ruolo fondamentale per decifrare le complessità della società contemporanea. Anche se, più che umanisti in grado di leggere la società, il mercato del lavoro mi sembra richieda purtroppo semplici veicolatori di messaggi istantanei ed effimeri…
Al di là delle provocazioni quindi, quello che consiglierei ad un giovane collega è di puntare su competenze specialistiche in materia di GIS e di BIM (building information modelling), coltivando il più possibile un approccio multidisciplinare o come dicono alcuni visionari “ibrido”. I settori che avranno grande impulso nei prossimi anni saranno quelli dell’archeologia urbana e dell’archeologia preventiva e i profili più richiesti saranno quelli in grado di lavorare al fianco di urbanisti, di strutturisti e pianificatori. Anche grazie alle nostre battaglie, nel 2017 la disciplina dell’archeologia preventiva è stata pienamente recuperata nel Codice degli Appalti, trovando così pieno diritto di cittadinanza tra le indagini preliminari alla progettazione di fattibilità delle opere pubbliche. A breve peraltro usciranno le linee guida che daranno un’ulteriore accelerazione al mercato professionale. Ma per dare forza alla professione sarà necessario coinvolgere più attivamente gli archeologi nella pianificazione territoriale, anche per le opere private, dando finalmente attuazione alla Convenzione Internazionale per la Protezione del Patrimonio Archeologico, firmata a Malta nel 1992 e ratificata dall’Italia nel 2015 grazie ad un appello di cui sono stato primo firmatario.