Benefici fiscali per imprese e individui
Intervista a Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Vice Presidente Associazione Civita
Dal Suo volume “Arte e Finanza” emerge un quadro molto puntuale dei benefici fiscali concessi ai soggetti eroganti nei principali Paesi europei e nel contesto statunitense. Sia in termini di oneri deducibili/detraibili che di procedure da seguire le differenze con l’Italia risultano significative. Quali sono le azioni principali che il nostro Paese potrebbe mettere in campo per recuperare posizioni in tal senso?
Negli Stati Uniti si riscontra un sistema di incentivazione al settore culturale particolarmente vantaggioso per le imprese e per i privati. Le donazioni in denaro delle imprese sono deducibili fino al 50% del reddito lordo, mentre le donazioni in titoli sono interamente deducibili; per i soggetti privati, invece, le donazioni in denaro sono deducibili al 100% e per le donazioni in titoli è deducibile il capital gain. Non è un caso che il mecenatismo culturale abbia trovato in America terreno fertile al punto che il coinvolgimento delle aziende ha superato, già da molti anni ormai, anche il livello di aiuti pubblici al settore culturale. Si è, in sostanza, radicata un’ideologia che vede le imprese coinvolte nel settore culturale sia per incoraggiare e rafforzare l’individualità nazionale e migliorare il benessere sociale, sia come un mezzo per migliorare l’attività d’impresa. Nel volume “Arte e Finanza” del 2012, dove per primo nel nostro Paese – ritengo – ho esaminato questi aspetti, ho prospettato i casi di Francia e Germania. Nella prima di queste due Nazioni le misure a favore del mecenatismo culturale risalgono addirittura al 2003, e hanno subito significativi miglioramenti ed estensioni del loro ambito di applicabilità una prima volta nel 2007 e successivamente nel 2009. In Germania, d’altro canto, l’arte e la cultura, oltre ad essere sostenute dal settore pubblico, sono promosse e finanziate in misura considerevole anche da privati (singoli e imprese). È evidente, dunque, come nel nostro Paese – nonostante le misure contenute nell’”Art Bonus”, che è stato introdotto nel 2014 – ancora molto rimanga da fare: bisognerebbe, ad esempio, che lo Stato interrompesse la prassi obsoleta ed inefficace dei “benefici a pioggia” su comparti che non danno alcuna risposta, o che consentisse realmente, nella pratica, l’applicazione del principio di sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione (art. 118), mettendo finalmente in condizione il privato – soprattutto il privato sociale – di fare un passo avanti, sempre nel rispetto delle leggi e sotto l’occhio vigile dell’istituzione pubblica.
Nel Suo volume “Arte e Finanza”, viene evidenziato il valore aggiunto prodotto dalle industrie culturali e creative e il loro esser volano di produttività. L’economia della conoscenza, quindi, quanto e come può incidere nella visione strategica del nostro Paese?
Tantissimo. Come ho diffusamente scritto, esiste una stretta relazione tra economia e cultura e, in un Paese come l’Italia, l’impatto può essere molto significativo. La cultura crea crescita economica grazie all’indotto che ne deriva; a tal proposito si pensi, ad esempio, ai binomi turismo-cultura e cultura-tecnologia e alla nascita di nuove professioni nel settore culturale. I beni artistici non sono importanti solo in termini di benefici immateriali che apportano alla società e ai singoli individui, esprimibili in termini di arricchimento personale sul piano culturale, spirituale e sociale: sono, anche e soprattutto, un importante strumento per il rilancio economico dell’Italia, che è per antonomasia il paese della cultura. Si pensi soltanto che il settore culturale vanta infatti un moltiplicatore pari a 1,7, che significa che ogni euro investito in cultura ne mette in moto altri 1,7 in settori quali il commercio, il turismo, l’enogastronomia e i trasporti. Affinché la cultura sia il vero motore della crescita è necessaria tuttavia – come ho illustrato sempre nel mio libro “Arte e Finanza” – una gestione efficiente delle industrie culturali, realizzabile solo grazie a figure professionali dotate di competenze sia in ambito artistico sia manageriale. In tal modo il mondo della cultura potrà dotarsi di un sistema di governance efficace, che sappia premiare le iniziative più virtuose, e adeguare le fonti di finanziamento al raggiungimento degli obiettivi che dovranno essere sia di natura economica sia culturale.
Quali sono, a Suo avviso, le nuove leve finanziarie che possono facilitare gli investimenti e, dunque, la cooperazione dei privati con il pubblico?
Come ho già avuto modo di dire, la mia battaglia a favore di un intervento diretto nel settore culturale tramite un meccanismo in grado di superare i limiti del sistema di incentivazione fiscale alle donazioni liberali è stata, in un certo senso, accolta del decreto Franceschini del 2014. Il decreto recepisce l’esigenza di un approccio diverso, ispirato non tanto alla conservazione quanto alla valorizzazione del patrimonio culturale. Tra i vari provvedimenti presenti noto, in particolare, che è stato accolto quanto esposto già nella prima edizione del mio libro, pubblicato – come detto – nel 2012: mi riferisco, in particolare, oltre alla legge sul mecenatismo culturale di cui ho già parlato, alla norma che introduce le figure manageriali alla guida dei musei. È un inizio, ma ora occorre un business plan per l’industria culturale che abbia come obiettivo far aderire il territorio alle sue risorse stimolando iniziative e inglobando l’iniziativa privata come motore della crescita, nonché facendo in modo che le persone comprendano l’importanza dell’investire in cultura risparmi, tempo e risorse, dal momento che con la sua crescita si contribuisce allo sviluppo della società civile e ad un mondo migliore per le generazioni future. Sarebbe, tra l’altro, fondamentale far comprendere al Governo l’importanza della cultura come strumento di crescita economica cambiando, in primis, il nome del “Ministero dei Beni Artistici e Culturali” in “Ministero dell’Economia Culturale”, così da dare avvio ad una nuova consapevolezza del ruolo che la cultura può svolgere nel nostro Paese. Inoltre, insisterei sull’aumentare almeno all’1% la percentuale di Prodotto Interno Lordo che deve essere destinata al settore culturale rispetto all’attuale e misero 0,1%. Solo investendo nel settore culturale, infatti, si può rilanciare la sua crescita e con essa quella dell’economia. In un Paese dove la grande industria è in difficoltà, le piccole e medie imprese stentano di fronte a problemi amministrativi, burocratici e fiscali e l’agricoltura è stata messa in ginocchio dalla concorrenza internazionale, restano solo due cose su cui è possibile puntare: il territorio e la grande cultura. Da ultimo, rilevo l’esigenza di introdurre l’obbligatorietà dello studio della storia dell’arte nelle scuole, richiesta da me avanzata più volte negli anni ai competenti Ministri (incluso l’attuale), purtroppo senza concrete risposte.