Crisi e sostenibilità: verso una nuova cultura d’impresa
Una crisi è un punto di passaggio. Come rivela la stessa origine, dalla parola grecaκρíσıς e cioè “scelta, decisione” e dal verbo κρíνω,“distinguere, giudicare”. L’ambivalenza linguistica è universale: la parola cineseweijiè composta da due ideogrammi che indicano uno il “pericolo” e l’altro “l’opportunità”. Ecco l’ora critica, tra la salvezza e la morte. E il crivello, quel setaccio che separa il grano dal loglio. “Mai sprecare una buona crisi”, sosteneva Winston Churchill, citato da Barack Obama. Perché “quello che non ti uccide ti fa più forte”, citando Friedrich Nietzsche.
La crisi del Covid 19, tra pandemia e recessione, ci ha messi di fronte alle fragilità d’una società quanto mai complessa, nelle sue interconnessioni, con la forza del progresso economico e scientifico e le debolezze dei divari geografici e sociali, di generazione e di genere. E ci impone di tessere nuove e migliori trame delle relazioni tra le persone, gli Stati, le comunità, le imprese.
Nella fatica della malattia e nel dolore della morte, che colpisce soprattutto gli anziani e dunque ferisce anche la memoria e l’eredità delle conoscenze e degli affetti, in questi mesi di paura, solitudine e impoverimento, sappiamo che il mondo che conosciamo si è rotto ma, nonostante tutto, bisogna andare verso la fine del nostro “viaggio al termine della notte”.
Tornano alla memoria le parole sapienti di Albert Camus, nelle pagine de “La peste”: “Sulla terra ci sono flagelli e vittime e, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Eccola, la dimensione della crisi: elaborare il lutto dei morti. E ricostruire. Ci aiuta, ancora una volta, un’immagine classica, dall’arte giapponese del kintsugi, la riparazione con un filo d’oro d’un oggetto prezioso, riportato a nuova vita. Oltre la fragilità, appunto.
Questa crisi è uno straordinario acceleratore della necessità di scelte che rendano le società e gli stili di vita più equilibrati e giusti. E rilancia i valori legati alla sostenibilità ambientale e sociale, alla qualità dello sviluppo, ben oltre i tradizionali paradigmi della quantità della crescita economica. Aggiungendo al pur indispensabile calcolo dell’aumento del Pil, il Prodotto interno lordo, quello qualitativo del Bes, l’indice Istat del Benessere equo e sostenibile. La “decrescita felice”, infatti, è una pericolosa illusione. La crescita squilibrata, però, una altrettanto pericolosa deriva con gravi conseguenze sociali. La Grande Crisi del 2008 aveva reso chiara l’insostenibilità di un meccanismo economico fondato sulla rapacità della speculazione finanziaria e le asimmetrie di redditi e consumi.
La migliore letteratura economica aveva posto le basi di un radicale “cambio di paradigma” per lo sviluppo. E l’enciclica di Papa Francesco “Laudatosi’” ha dato indicazioni fondamentali per un’economia “giusta”, “circolare”, “civile” che avesse al suo centro il valore delle persone.
“Riconciliare la nostra economia con il nostro pianeta, lo sviluppo umano con la protezione della nostra casa. Troppo a lungo l’umanità ha sottratto risorse all’ambiente e in cambio ha prodotto rifiuti e inquinamento”, sostiene la presidente della Commissione Ue Ursula von derLeyen. E, proprio per affrontare le conseguenze della crisi da pandemia e recessione, la Ue lancia il Recovery Fund battezzato “Next generation” e fondato su Green Deal e sviluppo della digital economy: appunto il “cambio di paradigma” che lega sostenibilità e nuove tecnologie, responsabilità e valori delle persone, a partire dal futuro dei giovani.
Già nel cuore dell’agosto del 2019, d’altronde, un documento della Business Roundtable Usa, firmato da 180 top managerdella Corporate America (Amazon, Apple, BlackRock, Goldman Sachs, Coca Cola, General Electric, etc.) aveva rovesciato la shareholdertheory di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys (“La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”) che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta alle soglie dell’oggi, per sostenere invece che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dal liberismo si torna al liberalismo con forti componenti sociali di John M. Keynes, finalmente riletto e riportato alla ribalta dell’attualità.
Anche in Italia la sostenibilità è da tempo tra i valori e gli interessi di un’ampia platea di aziende, come fattore essenziale di competitività. Imprese attente all’ambiente e ai temi sociali (dall’inclusione al welfare, dalla salute alla sicurezza, dalla qualità del lavoro all’innovazione) proprio perché legate ai territori, in cui affondano le radici le culture della buona manifattura. E dunque inclini alla sostenibilità come caratteristica di fondo del loro crescere sul mercato.
Una conferma? Le attività dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile, legata ai principi dei Sustainable Development Goals degli accordi Onu di Parigi 2015. E il “Manifesto di Assisi” per l’economia sostenibile, circolare e civile, presentato nella Basilica di San Francesco nel gennaio 2020 e rilanciato, a metà aprile, nel cuore dell’emergenza da coronavirus. Promosso da Symbola e dal Sacro Convento di Assisi e firmato da Confindustria, Assolombarda, Coldiretti e da oltre 3mila personalità dell’impresa e della cultura, il “Manifesto” insiste sul fatto che “l’emergenza climatica non è solo una necessità da affrontare con coraggio, ma costituisce anche una straordinaria opportunità per costruire un’economia più forte perché a misura d’uomo. E l’Italia “può declinarla mettendo a frutto la sua leadership in Europa per l’economia circolare”. In evidenza, “i valori di una nuova cultura d’impresa, con la responsabilità di ognuno a integrare, a non sprecare, a far partecipare, rilanciando la solidarietà e la pace”. Un’indicazione preziosa per unire “etica, economia, sostenibilità”.
Antonio Calabrò, Direttore Fondazione Pirelli e Presidente Museimpresa