Il valore universale e condiviso della Cultura
Oltre agli aspetti economico-finanziari, ci sono pochi temi che avvicinano oggi popoli e nazioni. Tra i principali le guerre, le calamità naturali ed industriali (inclusi gli aspetti alimentari e sanitari), la conservazione dei beni culturali.
Tali elementi non hanno lo stesso peso in quanto, mentre i primi due sono agenti di perturbazione dei sistemi socio-economico-territoriali, il patrimonio culturale rappresenta invece un elemento che subisce gli impatti di guerre e calamità ma che, per l’intrinseco valore che rappresenta nella storia dell’umanità, ha valore universale e condiviso.
Un modello per tutti sono stati i Buddha distrutti di Bamiyan in Afghanistan, costruiti nel V e VI sec. A.D., splendido esempio della cultura buddista dell’Asia centrale e sopravvissuti all’islamizzazione della regione, ma che solo la furia iconoclasta dei talebani ha avuto l’arroganza di distruggere.
A Bamiyan, come in altre parti della Siria o dell’Iraq, una delle maggiori conseguenze dell’espansione territoriale dell’ISIS (o DAESH), oltre al carico immane di vittime e di prevaricazioni sulle popolazioni, riguarda infatti la distruzione di importanti vestigia e resti del patrimonio storico-culturale di questi Paesi. Tale comportamento è stato volutamente ideato per spettacolarizzare l’avanzata di queste armate per un’audience di carattere globale ma anche per terrorizzare le popolazioni locali. Infatti, le devastazioni tendono a tagliare le radici di questi popoli con la loro storia e le loro tradizioni, di fatto rendendoli orfani della loro cultura e, quindi, facili prede del fondamentalismo.
Ho lavorato in molti dei luoghi che oggi sono teatro di distruzioni. Sia in Afghanistan che in Iraq che in Siria ho trovato una grande fierezza nelle popolazioni locali che considerano basilare il rispetto per la propria comunità e quello per la propria storia. Chi perde tale rispetto resta isolato nella società.
È questo uno dei motivi per cui l’ISIS, per le azioni più efferate, ha avuto necessità di usare i foreign fighters, combattenti stranieri, per lo più cresciuti nelle periferie delle grandi città occidentali, che non sono in grado di confrontarsi con una storia millenaria, ma vivono solo la rabbia della mancata integrazione sociale. La mancanza del senso di appartenenza ad una comunità e le lacune culturali, intese come estraneità ad un percorso storico collettivo, rendono queste persone strumenti ciechi di violenza (cfr. C. Margottini, Le radici tagliate della cultura, L’Astrolabio, 2015).
È quindi evidente che il patrimonio culturale assume un forte valore simbolico e politico. È il caso dei monumenti rupestri ubicati al confine conteso tra Georgia ed Azerbaijan, dove le indagini e gli studi fino ad oggi condotti hanno avuto necessità di una particolare attenzione per non interferire con le rivendicazioni territoriali dei due Paesi.
La conservazione dei beni culturali diviene quindi un collante tra le varie popolazioni e rappresenta, probabilmente, uno dei maggiori veicoli di diplomazia scientifica, specialmente nei Paesi meno organizzati nella protezione di monumenti e siti.
Il Governo italiano opera con efficacia in tale settore, anche in virtù di un retroterra di conoscenze scientifiche e tecnologiche nel settore che è tra i più avanzati al mondo, in grado di fornire, alla nostra diplomazia, gli strumenti per promuovere e poi aiutare quei Paesi desiderosi di tutelare i propri beni ma impossibilitati a farlo per mancanza di risorse e conoscenze. Ricordo a tal fine e solo come esempi, il ritorno dell’obelisco di Aksum (in Etiopia chiamato obelisco di Roma), il monitoraggio geologico di Machu Picchu (Perù), il risanamento idrogeologico delle tombe di Kogurio (Corea del Nord), la protezione dai crolli in Petra (Giordania), la protezione della Chiesa di Santa Tecla a Maaloula (Siria), la proposta di ricostruzione di uno dei Buddha distrutti di Bamiyan, attraverso l’uso di robot antropomorfi e marmo di Carrara, altresì marmo Afghano (cfr. C. Margottini et. Al., The Renaissance of Bamiyan (Afghanistan) and Some Proposals for the Revitalisation of the Bamiyan Valley, Springer, 2020).
La conservazione del patrimonio culturale è quindi un ponte simbolico tra conoscenze scientifiche ed esigenze di salvaguardia, ma anche un ponte reale tra i Paesi dove si sviluppano conoscenze e quelli dove la tutela a salvaguardia non sono ancora adeguatamente sviluppate. Questo dualismo tra sviluppo della conoscenza ed applicazione è fondamentale, specialmente nelle politiche preventive. In occasione di un progetto di monitoraggio che interessava il sito di Machu Picchu venne sviluppato, da un gruppo di università italiane, il prototipo di un radar terreste per la misura delle deformazioni del suolo a scala millimetrica, operante da centinaia di metri di distanza e quindi senza alcun impatto sul sito archeologico. Tale strumento è oggi utilizzato in numerosi siti archeologici, come a Vardzia in Georgia, ma soprattutto è divenuto uno strumento fondamentale per la protezione civile nazionale e per chi opera in cave e miniere a cielo aperto.
Diverso è il caso della ricostruzione e/o conservazione dei resti dove diviene necessario sviluppare politiche efficaci e veloci per evitare la perdita di quanto è sopravvissuto alla devastazione e alla guerra. In Afghanistan, dopo la distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001, con la cessazione (teorica) delle ostilità nel marzo del 2002, venne effettuata una prima missione nel settembre 2002, consegnato il progetto esecutivo all’UNESCO nel giugno 2003, effettuato il bando internazionale dall’UNESCO nel luglio 2003, espletata la gara con vincita di una ditta italiana, la Rodio oggi acquisita dalla Trevi di Cesena, la quale ad ottobre 2003 ha iniziato i lavori di consolidamento delle nicchie rimaste e che rischiavano di crollare. Quattro mesi per passare dalla consegna del progetto all’inizio lavori, in Afghanistan.
In questo caso è indubbio che il patrimonio culturale, con l’eccezione del periodo talebano, abbia agito per circa 1500 anni come veicolo per la tolleranza e il dialogo interculturale e interreligioso. Così come in Maaloula (Siria) dove sono riposte le spoglie di Santa Tecla. Visitai quest’ultima nel 2009 per un lavoro di consolidamento della rupe sovrastante la tomba. Un enclave cristiano in completa armonia con le comunità islamiche, dove rimasi incantato dalle Suore che custodivano la tomba, dall’aramaico che si parlava in questo villaggio, dalle case dipinte di un vivo color celeste dai proprietari cristiani a dimostrazione dell’avvenuto pellegrinaggio a Gerusalemme. Eravamo a circa cinquanta chilometri da Damasco.
Le politiche per la tutela e la salvaguardia necessitano comunque di risorse ed accordi di natura politica. Strumenti del primo tipo sono i fondi per la cooperazione allo sviluppo (AICS), la rete degli addetti scientifici e tecnologici del MAECI, dove ho avuto il privilegio di lavorare gli ultimi quattro anni, ma anche i progetti comunitari, l’UNESCO ed i finanziamenti di molte altre istituzioni.
Altro strumento fondamentale di natura politica, oltre che economica, sono le borse di studio, generalmente fornite dal MAECI ma anche dalle singole università, con cui tecnici ed esperti locali possono frequentare i nostri corsi e stabilire quindi un legame duraturo con il nostro Paese. Tali legami rappresentano il substrato culturale da cui si sviluppano collaborazioni scientifiche e rapporti umani che vanno ben oltre la politica ed i governi.
Ricordo ancora con piacere, nel 2019 al Cairo, l’incontro con il Ministro della Sanità egiziana il quale, prima di qualsiasi conversazione con l’Ambasciatore ed i suoi diplomatici, ci tenne ad informarci di essere un medico, un ortopedico e di avere studiato a Bologna.
Questi ex studenti divengono poi classe dirigente nei Paesi di appartenenza e costituiscono il ponte diretto tra le nostre istituzioni e quelle dei Paesi coinvolti. Ben prima della diplomazia ufficiale.
In conclusione, è indubbio che il patrimonio culturale rappresenti un oggetto speciale la cui conservazione necessita di conoscenze scientifiche interdisciplinari, strumenti per il recupero delle risorse economiche e per il trasferimento della conoscenza quali la diplomazia scientifica in tutte le sue forme e, infine, il forte coinvolgimento delle comunità locali (cfr. C. Margottini, Behind-the-scenes in mitigation of landslides and other geohazards in low income countries – in memory of Hiroshi Fukuoka, Springer Verlag, 2021). In questo modo, i beni culturali agiscono come veicolo importante per la pace, la democrazia e lo sviluppo sostenibile favorendo la tolleranza, la comprensione reciproca, la riconciliazione e il dialogo.
In altre parole, valorizzare la storia e le identità locali, attraverso il contributo della conoscenza storica e scientifica, dovrebbe consentire di radicare ancor più una idea collettiva di bene comune culturale, da difendere e preservare. Come d’altronde già accaduto in Afghanistan per 1500 anni prima dell’avvento dei talebani e come forse sta avvenendo oggi, dopo il lavoro congiunto tra esperti internazionali e comunità locali negli ultimi venti anni, con il ritorno dei talebani dimostratisi apparentemente meno aggressivi verso il patrimonio culturale afghano.
Claudio Margottini
già Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia in Egitto
Cattedra UNESCO per la Prevenzione e Gestione Sostenibile dei Rischi Geo-Idrologici, Università di Firenze