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Aziende italiane puntano su sostenibilità: ostacoli e opportunità
Roma, 30 nov. (Adnkronos) – Quasi 9 leader italiani su 10 (86%) prevedono di mantenere o aumentare i loro investimenti in azioni di sostenibilità entro il 2026. Sono i dati del Rapporto annuale sulla Sostenibilità di Sap, secondo il quale, nonostante queste previsioni, la strada per il progresso ambientale presenta alcune barriere. Lo studio globale condotto su oltre 4.700 manager d’azienda, di cui 200 in Italia, è la terza edizione dell’annuale Sustainability Study di Sap che esplora le motivazioni e le sfide principali che le organizzazioni devono affrontare per ridurre l’impatto ambientale su larga scala., L’analisi di quest’anno rileva che, mentre il 34% delle aziende italiane afferma che l’azione ambientale sta già avendo un forte impatto sulle opportunità di profitto e crescita, oltre un terzo (34%) ha difficoltà a calcolare il ritorno sugli investimenti, rendendo più difficile dimostrare e sostenere i progressi a lungo termine., In passato, le misure per la salvaguardia del pianeta da parte delle imprese potevano essere viste solo come un obbligo morale o etico, ma la sensibilità sta evolvendo e oggi le aziende italiane vedono anche altri vantaggi, a lungo termine, inclusi quelli finanziari. Infatti, un quarto (25%) degli intervistati dichiara che le opportunità di guadagno e di profitto sono una delle principali motivazioni che guida le azioni di sostenibilità delle loro organizzazioni. In un contesto di inflazione, problemi o interruzioni nella catena di approvvigionamento e aumento del costo della vita, i leader italiani sono fermi nei loro impegni ambientali e considerano l’azione di sostenibilità anche come un mezzo per compensare l’incertezza economica. Oltre la metà (57%) del campione si aspetta di vedere un ritorno finanziario positivo sui propri investimenti in sostenibilità entro i prossimi cinque anni., “Il nostro studio – osserva Adriano Ceccherini, Chief Operating Officer di Sap Italia – dimostra che è giunto il momento che i leader si rendano conto che avere un solido piano d’azione per la sostenibilità ha senso per il business. È indispensabile per attrarre finanziamenti da parte di investitori che hanno bisogno di rendere il proprio portfolio più green e per ottenere un vantaggio competitivo, dato che i clienti richiedono prodotti sostenibili lungo tutta la supply chain”., Tuttavia, nonostante il legame tra l’azione ambientale e la generazione di ricavi a lungo termine, la ricerca di Sap mostra che le aziende in Italia non coinvolgono spesso i responsabili finanziari nelle azioni di sostenibilità e questo potrebbe frenarne i progressi. Attualmente, solo il 6,5% delle aziende ha assegnato al proprio Cfo la responsabilità di definire la direzione strategica delle azioni di sostenibilità. La responsabilità ricade su altri ruoli, tra cui il Consiglio di Amministrazione (31,5%), i Chief Operating Officer (14%), i Ceo (12%) e i Chief Sustainability Officer (10%)., Altre barriere alla sostenibilità espresse dagli intervistati sono: mancanza di competenze (il 26% delle aziende italiane cita la mancanza di competenze necessarie come uno dei principali ostacoli all’adozione di azioni di sostenibilità); supporto degli stakeholder (il 21% non riesce a ottenere il sostegno degli stakeholder in posizioni apicali all’interno dell’organizzazione per intraprendere un’azione concertata); mancanza di fondi (il 20% cita il problema della mancanza di fondi per attuare azioni di sostenibilità)., In Italia, poi, le aziende continuano a ritenere che la misurazione sia un ostacolo al progresso e, in ultima analisi, ai ritorni economici. La situazione varia a seconda degli ambiti di misurazione: il 54% degli intervistati dichiara di essere in grado di tracciare le emissioni Scope 1 (le emissioni di gas a effetto serra prodotte direttamente) a un ‘livello elevato’, mentre solo il 20% dichiara di saperlo fare per le emissioni Scope 2 (le emissioni indirette associate all’energia acquistata dall’azienda) e il 16% per le emissioni Scope 3 (quelle prodotte indirettamente attraverso la catena di fornitura)., I responsabili delle aziende italiane faticano anche ad adottare un quadro di rendicontazione standardizzato, con un quarto degli intervistati che non ha una metodologia coerente per calcolare l’impatto ambientale dei propri prodotti. La situazione è ulteriormente aggravata dall’uso di metodi di misurazione contrastanti per la rendicontazione. Le aziende intervistate utilizzano soprattutto misurazioni dirette per monitorare le emissioni di energia (95%), la disponibilità di risorse (78%), la disponibilità di acqua potabile (64%), i rifiuti solidi e l’uso di materiali (81%), e si affidano a stime per l’inquinamento atmosferico (90%), la perdita di risorse naturali (86%), l’inquinamento idrico (76%) e l’impatto della catena di approvvigionamento (71%). Questo porta quasi nove leader su dieci (85%) a segnalare difficoltà nella raccolta o nell’analisi dei dati per la conformità alle normative, in un momento in cui le aziende in Italia si trovano a dover gestire una serie di regolamenti, tasse e imposte in continua evoluzione associate all’impronta di carbonio., “In un clima in cui normative più severe impongono alle aziende di comunicare il loro impatto ambientale, i leader che non sono in grado di riportare accuratamente questi dati rischiano di essere accusati di greenwashing o di incorrere in multe e danni all’immagine -ha dichiarato Adriano Ceccherini – Concentrarsi sull’implementazione di un quadro di rendicontazione standardizzato garantisce alle aziende di comprovare le proprie credenziali, di effettuare misurazioni corrette e avviare iniziative di impatto a lungo termine. Le organizzazioni possono utilizzare questi dati per riprogettare i prodotti, riutilizzare i materiali, ridurre i rifiuti e rigenerare i sistemi naturali lungo la catena di fornitura, dando così impulso all’economia circolare”. “La connessione tra azioni di sostenibilità e performance finanziarie giocherà un ruolo cruciale nel plasmare il progresso ambientale in futuro”, rimarca Edward Manderson, docente di Economia Ambientale presso l’Università di Manchester.